La mia Terra di Mezzo

Tra un fonendo ed una tazza, scorre la mia Terra di Mezzo, il mio presente.....Le porte? Si possono aprire, spalancare sul mondo, ma si possono anche chiudere, per custodire preziosi silenzi e recondite preghiere....





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martedì 13 settembre 2011

San Giovanni Crisostomo

Giovanni nasce ad Antiochia (Turchia) intorno al 349 d.C.Vive gli anni della giovinezza da monaco in casa propria. Viene ordinato sacerdote dal vescoco Fabiano e ne diventa collaboratore. Eletto vescovo di Costantinopoli nel 397, si rivela un grande pastore, mirabile per l'eloquenza (da qui il nome di 'crisostomo', bocca d'oro) e forte nelle persecuzioni che deve subire a causa dell'odio dei suoi nemici personali e della corte bizantina. Si prodiga assiduamente per la riforma dei costumi, per formare i fedeli alla vita cristiana ed illustrare la dottrina cattolica. Muore a Comana sul mar Nero il 14 settembre 407. Ci lascia numerosi e preziosi scritti. La Chiesa lo ha proclamato Dottore per la sua sapienza.


BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 settembre 2007

San Giovanni Crisostomo
I: Gli anni di Antiochia
Cari fratelli e sorelle,
quest’anno ricorre il sedicesimo centenario della morte di san Giovanni Crisostomo (407-2007). Giovanni di Antiochia, detto Crisostomo, cioè «Bocca d’oro» per la sua eloquenza, può dirsi vivo ancora oggi, anche a motivo delle sue opere. Un anonimo copista lasciò scritto che esse «attraversano tutto l’orbe come fulmini guizzanti». I suoi scritti permettono anche a noi, come ai fedeli del suo tempo, che ripetutamente furono privati di lui a causa dei suoi esili, di vivere con i suoi libri, nonostante la sua assenza. E’ quanto egli stesso suggeriva dall’esilio in una sua lettera (cfr A Olimpiade, Lettera 8,45).
Nato intorno al 349 ad Antiochia di Siria (oggi Antakya, nel sud della Turchia), vi svolse il ministero presbiterale per circa undici anni, fino al 397, quando, nominato Vescovo di Costantinopoli, esercitò nella capitale dell’Impero il ministero episcopale prima dei due esili, seguiti a breve distanza l’uno dall’altro, fra il 403 e il 407. Ci limitiamo oggi a considerare gli anni antiocheni del Crisostomo.
Orfano di padre in tenera età, visse con la madre, Antusa, che trasfuse in lui una squisita sensibilità umana e una profonda fede cristiana. Frequentando gli studi superiori, coronati dai corsi di filosofia e di retorica, ebbe come maestro Libanio, pagano, il più celebre retore del tempo. Alla sua scuola, Giovanni divenne il più grande oratore della tarda antichità greca. Battezzato nel 368 e formato alla vita ecclesiastica dal Vescovo Melezio, fu da lui istituito lettore nel 371. Questo fatto segnò l’ingresso ufficiale del Crisostomo nel cursus ecclesiastico. Frequentò, dal 367 al 372, l’Asceterio, una sorta di seminario di Antiochia, insieme con un gruppo di giovani, alcuni dei quali divennero poi Vescovi, sotto la guida del famoso esegeta Diodoro di Tarso, che avviò Giovanni all'esegesi storico-letterale, caratteristica della tradizione antiochena.
Si ritirò poi per quattro anni tra gli eremiti sul vicino monte Silpio. Proseguì quel ritiro per altri due anni, vissuti da solo in una grotta sotto la guida di un «anziano». In quel periodo si dedicò totalmente a meditare «le leggi di Cristo», i Vangeli e specialmente le Lettere di Paolo. Ammalatosi, si trovò nell’impossibilità di curarsi da solo, e dovette perciò ritornare nella comunità cristiana di Antiochia (cfr Palladio, Vita 5). Il Signore – spiega il biografo – intervenne con l’infermità al momento giusto per permettere a Giovanni di seguire la sua vera vocazione. In effetti scriverà lui stesso che, posto nell’alternativa di scegliere tra le traversie del governo della Chiesa e la tranquillità della vita monastica, avrebbe preferito mille volte il servizio pastorale (cfr Il sacerdozio 6,7): proprio a questo il Crisostomo si sentiva chiamato. E qui si compie la svolta decisiva della sua storia vocazionale: Pastore d’anime a tempo pieno! L’intimità con la Parola di Dio, coltivata durante gli anni del romitaggio, aveva maturato in lui l’urgenza irresistibile di predicare il Vangelo, di donare agli altri quanto egli aveva ricevuto negli anni della meditazione. L’ideale missionario lo lanciò così, anima di fuoco, nella cura pastorale.
Fra il 378 e il 379 ritornò in città. Diacono nel 381 e presbitero nel 386, divenne celebre predicatore nelle chiese della sua città. Tenne omelie contro gli ariani, seguite da quelle commemorative dei martiri antiocheni e da altre sulle festività liturgiche principali: si tratta di un grande insegnamento della fede in Cristo, anche alla luce dei suoi Santi. Il 387 fu l’«anno eroico» di Giovanni, quello della cosiddetta «rivolta delle statue». Il popolo abbatté le statue imperiali, in segno di protesta contro l’aumento delle tasse. Si vede che alcune cose nella storia non cambiano! In quei giorni di Quaresima e di angoscia, a motivo delle incombenti punizioni da parte dell’imperatore, egli tenne le sue 22 vibranti Omelie sulle statue, finalizzate alla penitenza e alla conversione. Seguì il periodo della serena cura pastorale (387-397).
Il Crisostomo si colloca tra i Padri più prolifici: di lui ci sono giunti 17 trattati, più di 700 omelie autentiche, i commenti a Matteo e a Paolo (Lettere ai Romani, ai Corinti, agli Efesini e agli Ebrei), e 241 lettere. Non fu un teologo speculativo. Trasmise, però, la dottrina tradizionale e sicura della Chiesa in un’epoca di controversie teologiche suscitate soprattutto dall’arianesimo, cioè dalla negazione della divinità di Cristo. È pertanto un testimone attendibile dello sviluppo dogmatico raggiunto dalla Chiesa nel IV-V secolo. La sua è una teologia squisitamente pastorale, in cui è costante la preoccupazione della coerenza tra il pensiero espresso dalla parola e il vissuto esistenziale. È questo, in particolare, il filo conduttore delle splendide catechesi, con le quali egli preparava i catecumeni a ricevere il Battesimo. Prossimo alla morte, scrisse che il valore dell’uomo sta nella «conoscenza esatta della vera dottrina e nella rettitudine della vita» (Lettera dall’esilio). Le due cose, conoscenza della verità e rettitudine nella vita, vanno insieme: la conoscenza deve tradursi in vita. Ogni suo intervento mirò sempre a sviluppare nei fedeli l’esercizio dell’intelligenza, della vera ragione, per comprendere e tradurre in pratica le esigenze morali e spirituali della fede.
Giovanni Crisostomo si preoccupa di accompagnare con i suoi scritti lo sviluppo integrale della persona, nelle dimensioni fisica, intellettuale e religiosa. Le varie fasi della crescita sono paragonate ad altrettanti mari di un immenso oceano: «Il primo di questi mari è l’infanzia» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Infatti «proprio in questa prima età si manifestano le inclinazioni al vizio e alla virtù». Perciò la legge di Dio deve essere fin dall’inizio impressa nell’anima «come su una tavoletta di cera» (Omelia 3,1 sul Vangelo di Giovanni): di fatto è questa l’età più importante. Dobbiamo tener presente come è fondamentale che in questa prima fase della vita entrino realmente nell’uomo i grandi orientamenti che danno la prospettiva giusta all’esistenza. Crisostomo perciò raccomanda: «Fin dalla più tenera età premunite i bambini con armi spirituali, e insegnate loro a segnare la fronte con la mano» (Omelia 12,7 sulla prima Lettera ai Corinzi). Vengono poi l’adolescenza e la giovinezza: «All'infanzia segue il mare dell’adolescenza, dove i venti soffiano violenti..., perchè in noi cresce... la concupiscenza» (Omelia 81,5 sul Vangelo di Matteo). Giungono infine il fidanzamento e il matrimonio: «Alla giovinezza succede l’età della persona matura, nella quale sopraggiungono gli impegni di famiglia: è il tempo di cercare moglie” (ibid.). Del matrimonio egli ricorda i fini, arricchendoli – con il richiamo alla virtù della temperanza – di una ricca trama di rapporti personalizzati. Gli sposi ben preparati sbarrano così la via al divorzio: tutto si svolge con gioia e si possono educare i figli alla virtù. Quando poi nasce il primo bambino, questi è «come un ponte; i tre diventano una carne sola, poiché il figlio congiunge le due parti» (Omelia 12,5 sulla Lettera ai Colossesi), e i tre costituiscono «una famiglia, piccola Chiesa» (Omelia 20,6 sulla Lettera agli Efesini).
La predicazione del Crisostomo si svolgeva abitualmente nel corso della liturgia, «luogo» in cui la comunità si costruisce con la Parola e l’Eucaristia. Qui l’assemblea riunita esprime l’unica Chiesa (Omelia 8,7 sulla Lettera ai Romani), la stessa parola è rivolta in ogni luogo a tutti (Omelia 24,2 sulla prima Lettera ai Corinzi), e la comunione eucaristica si rende segno efficace di unità (Omelia 32,7 sul Vangelo di Matteo). Il suo progetto pastorale era inserito nella vita della Chiesa, in cui i fedeli laici col Battesimo assumono l’ufficio sacerdotale, regale e profetico. Al fedele laico egli dice: «Pure te il Battesimo fa re, sacerdote e profeta» (Omelia 3,5 sulla seconda Lettera ai Corinzi). Scaturisce di qui il dovere fondamentale della missione, perché ciascuno in qualche misura è responsabile della salvezza degli altri: «Questo è il principio della nostra vita sociale... non interessarci solo di noi!» (Omelia 9,2 sulla Genesi). Il tutto si svolge tra due poli: la grande Chiesa e la «piccola Chiesa», la famiglia, in reciproco rapporto.
Come potete vedere, cari fratelli e sorelle, questa lezione del Crisostomo sulla presenza autenticamente cristiana dei fedeli laici nella famiglia e nella società, rimane ancor oggi più che mai attuale. Preghiamo il Signore perché ci renda docili agli insegnamenti di questo grande Maestro della fede.


Piazza San Pietro
Mercoledì, 26 settembre 2007
II: Gli anni di Costantinopoli
Cari fratelli e sorelle,
continuiamo oggi la nostra riflessione su san Giovanni Crisostomo. Dopo il periodo passato ad Antiochia, nel 397 egli fu nominato Vescovo di Costantinopoli, la capitale dell’Impero romano d’Oriente. Fin dall’inizio, Giovanni progettò la riforma della sua Chiesa: l’austerità del palazzo episcopale doveva essere di esempio per tutti – clero, vedove, monaci, persone della corte e ricchi. Purtroppo, non pochi di essi, toccati dai suoi giudizi, si allontanarono da lui. Sollecito per i poveri, Giovanni fu chiamato anche «l’Elemosiniere». Da attento amministratore, infatti, era riuscito a creare istituzioni caritative molto apprezzate. La sua intraprendenza nei vari campi ne fece per alcuni un pericoloso rivale. Egli, tuttavia, come vero Pastore, trattava tutti in modo cordiale e paterno. In particolare, riservava accenti sempre teneri per la donna e cure speciali per il matrimonio e la famiglia. Invitava i fedeli a partecipare alla vita liturgica, da lui resa splendida e attraente con geniale creatività.
Nonostante il suo cuore buono, non ebbe una vita tranquilla. Pastore della capitale dell’Impero, si trovò coinvolto spesso in questioni e intrighi politici, a motivo dei suoi continui rapporti con le autorità e le istituzioni civili. Sul piano ecclesiastico, poi, avendo deposto in Asia nel 401 sei Vescovi indegnamente eletti, fu accusato di aver varcato i confini della propria giurisdizione, e diventò così bersaglio di facili accuse. Un altro pretesto contro di lui fu la presenza di alcuni monaci egiziani, scomunicati dal patriarca Teofilo di Alessandria e rifugiatisi a Costantinopoli. Una vivace polemica fu poi originata dalle critiche mosse dal Crisostomo all’imperatrice Eudossia e alle sue cortigiane, che reagirono gettando su di lui discredito e insulti. Si giunse così alla sua deposizione, nel sinodo organizzato dallo stesso patriarca Teofilo nel 403, con la conseguente condanna al primo breve esilio. Dopo il suo rientro, l’ostilità suscitata contro di lui dalla protesta contro le feste in onore dell’imperatrice – che il Vescovo considerava come feste pagane, lussuose –, e la cacciata dei presbiteri incaricati dei Battesimi nella Veglia pasquale del 404 segnarono l’inizio della persecuzione di Crisostomo e dei suoi seguaci, i cosiddetti «Giovanniti».
Allora Giovanni denunciò per lettera i fatti al Vescovo di Roma, Innocenzo I. Ma era ormai troppo tardi. Nell’anno 406 dovette di nuovo recarsi in esilio, questa volta a Cucusa, in Armenia. Il Papa era convinto della sua innocenza, ma non aveva il potere di aiutarlo. Un Concilio, voluto da Roma per una pacificazione tra le due parti dell’Impero e tra le loro Chiese, non poté avere luogo. Lo spostamento logorante da Cucusa verso Pytius, mèta mai raggiunta, doveva impedire le visite dei fedeli e spezzare la resistenza dell’esule sfinito: la condanna all’esilio fu una vera condanna a morte! Sono commoventi le numerose lettere dall’esilio, in cui Giovanni manifesta le sue preoccupazioni pastorali con accenti di partecipazione e di dolore per le persecuzioni contro i suoi. La marcia verso la morte si arrestò a Comana nel Ponto. Qui Giovanni moribondo fu portato nella cappella del martire san Basilisco, dove esalò lo spirito a Dio e fu sepolto, martire accanto al martire (Palladio, Vita 119). Era il 14 settembre 407, festa dell’Esaltazione della santa Croce. La riabilitazione ebbe luogo nel 438 con Teodosio II. Le reliquie del santo Vescovo, deposte nella chiesa degli Apostoli a Costantinopoli, furono poi trasportate nel 1204 a Roma, nella primitiva Basilica costantiniana, e giacciono ora nella cappella del Coro dei Canonici della Basilica di San Pietro. Il 24 agosto 2004 una parte cospicua di esse fu donata dal Papa Giovanni Paolo II al Patriarca Bartolomeo I di Costantinopoli. La memoria liturgica del Santo si celebra il 13 settembre. Il beato Giovanni XXIII lo proclamò patrono del Concilio Vaticano II.
Di Giovanni Crisostomo si disse che, quando fu assiso sul trono della Nuova Roma, cioè di Costantinopoli, Dio fece vedere in lui un secondo Paolo, un dottore dell’Universo. In realtà, nel Crisostomo c’è un’unità sostanziale di pensiero e di azione ad Antiochia come a Costantinopoli. Cambiano solo il ruolo e le situazioni. Meditando sulle otto opere compiute da Dio nella sequenza dei sei giorni nel commento della Genesi, il Crisostomo vuole riportare i fedeli dalla creazione al Creatore: «È un gran bene», dice, «conoscere ciò che è la creatura e ciò che è il Creatore». Ci mostra la bellezza della creazione e la trasparenza di Dio nella sua creazione, la quale diventa così quasi una «scala» per salire a Dio, per conoscerlo. Ma a questo primo passo se ne aggiunge un secondo: questo Dio creatore è anche il Dio della condiscendenza (synkatábasis). Noi siamo deboli nel «salire», i nostri occhi sono deboli. E così Dio diventa il Dio della condiscendenza, che invia all’uomo caduto e straniero una lettera, la Sacra Scrittura, cosicché creazione e Scrittura si completano. Nella luce della Scrittura, della lettera che Dio ci ha dato, possiamo decifrare la creazione. Dio è chiamato «padre tenero» (philostórghios) (ibid.), medico delle anime (Omelia 40,3 sulla Genesi), madre (ibid.) e amico affettuoso (La provvidenza 8,11-12). Ma a questo secondo passo – prima la creazione come «scala» verso Dio e poi la condiscendenza di Dio tramite una lettera che ci ha dato, la Sacra Scrittura – si aggiunge un terzo passo. Dio non solo ci trasmette una lettera: in definitiva, scende Lui stesso, si incarna, diventa realmente «Dio con noi», nostro fratello fino alla morte sulla Croce. E a questi tre passi – Dio è visibile nella creazione, Dio ci dà una sua lettera, Dio scende e diventa uno di noi – si aggiunge alla fine un quarto passo. All’interno della vita e dell’azione del cristiano, il principio vitale e dinamico è lo Spirito Santo (Pneuma), che trasforma le realtà del mondo. Dio entra nella nostra stessa esistenza tramite lo Spirito Santo e ci trasforma dall’interno del nostro cuore.
Su questo sfondo, proprio a Costantinopoli Giovanni, nel commento continuato degli Atti degli Apostoli, propone l’esperienza della Chiesa primitiva (At 4,32-37) come modello per la società, sviluppando un’ «utopia» sociale (quasi una «città ideale»). Si trattava infatti di dare un’anima e un volto cristiano alla città. In altre parole, Crisostomo ha capito che non è sufficiente fare elemosina, aiutare i poveri di volta in volta, ma è necessario creare una nuova struttura, un nuovo modello di società: un modello basato sulla prospettiva del Nuovo Testamento. È la nuova società che si rivela nella Chiesa nascente. Quindi Giovanni Crisostomo diventa realmente così uno dei grandi Padri della Dottrina sociale della Chiesa: la vecchia idea della «polis» greca va sostituita da una nuova idea di città ispirata alla fede cristiana. Crisostomo sosteneva con Paolo (cfr 1 Cor 8,11) il primato del singolo cristiano, della persona in quanto tale, anche dello schiavo e del povero. Il suo progetto corregge così la tradizionale visione greca della «polis», della città, in cui larghi strati della popolazione erano esclusi dai diritti di cittadinanza, mentre nella città cristiana tutti sono fratelli e sorelle con uguali diritti. Il primato della persona è anche la conseguenza del fatto che realmente partendo da essa si costruisce la città, mentre nella «polis» greca la patria era al di sopra del singolo, il quale era totalmente subordinato alla città nel suo insieme. Così con Crisostomo comincia la visione di una società costruita dalla coscienza cristiana. Ed egli ci dice che la nostra «polis» è un’altra, «la nostra patria è nei cieli» (Fil 3,20) e questa nostra patria ci rende tutti uguali, fratelli e sorelle, anche su questa terra, e ci obbliga alla solidarietà.
Al termine della sua vita, dall’esilio ai confini dell’Armenia, «il luogo più remoto del mondo», Giovanni, ricongiungendosi alla sua prima predicazione del 386, riprese il tema a lui caro del piano che Dio persegue nei confronti dell’umanità: è un piano «indicibile e incomprensibile», ma sicuramente guidato da Lui con amore (cfr La provvidenza 2,6). Questa è la nostra certezza. Anche se non possiamo decifrare i dettagli della storia personale e collettiva, sappiamo che il piano di Dio è sempre ispirato dal suo amore. Così, nonostante le sue sofferenze, il Crisostomo riaffermava la scoperta che Dio ama ognuno di noi con un amore infinito, e perciò vuole la salvezza di tutti. Da parte sua, il santo Vescovo cooperò a questa salvezza generosamente, senza risparmiarsi, lungo tutta la sua vita. Considerava infatti ultimo fine della sua esistenza quella gloria di Dio, che – ormai morente – lasciò come estremo testamento: «Gloria a Dio per tutto!» (Palladio, Vita 11).

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