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mercoledì 2 maggio 2018

«Tutto questo è folle!»

Parla il medico che ha visitato Alfie Evans
«In Germania un bambino nelle sue condizioni sarebbe a casa già da un anno», dice il professore Nikolaus Haas. Lo stesso che il giudice Hayden ha attaccato citando a sproposito papa Francesco.
 
Articolo del 26 aprile 2018 Tratto da TEMPI
 
Ieri il quotidiano tedesco Die Welt ha pubblicato sul suo sito una intervista al professor Nikolaus Haas, direttore del dipartimento di Cardiologia pediatrica e terapia intensiva all’ospedale dell’Università Ludwig-Maximilian di Monaco, che secondo il giornale è «furioso» per il caso di Alfie Evans. Il professor Haas «ha visitato personalmente» il bambino e le sue valutazioni sono agli atti del processo che ha sancito la sospensione dei sostegni vitali per il piccolo paziente dell’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool. Come ha ricordato su tempi.it Assuntina Morresi, è proprio per rispondere alla sua perizia che il giudice Anthony Hayden ha pensato bene di citare una frase di papa Francesco sul fine vita. Il magistrato aveva trovato «provocatorio e inappropriato» il seguente argomento utilizzato da Haas: «Per via della nostra storia in Germania, abbiamo imparato che ci sono cose che non bisogna fare con bambini fortemente handicappati. Una società deve essere pronta a prendersi cura di questi bambini molto handicappati, e non decidere che i sostegni vitali siano interrotti contro la volontà dei genitori, se non c’è certezza di cosa sentano i bambini, come in questo caso».
 
IL CONTATTO. Con la Welt, il professore ricostruisce il suo coinvolgimento nella vicenda. «La famiglia ci ha contattati», racconta Haas, dopo che «i medici avevano detto loro che non volevano fare più niente per il bambino e intendevano sospendere i sostegni vitali. Ai genitori era stato vietato anche il trasporto in un altro ospedale, per la ragione che il bambino era troppo malato e la cosa lo avrebbe messo in pericolo». Così i genitori, prosegue il medico tedesco, hanno cercato un servizio di trasporto adatto ai pazienti come Alfie, trovandolo presso la struttura di Monaco, che possiede la tecnologia adatta, secondo Haas, per trasportare bambini in terapia intensiva di tutte le età in tutto il mondo. «Gli inglesi non ce l’hanno un servizio del genere?», domanda il giornalista. «Certo», risponde Haas. «Ma non vogliono che la famiglia Evans lo utilizzi».
 
IL RIFIUTO. I colleghi di Liverpool, però, da subito si sono mostrati mal disposti verso i tedeschi. Appresa la richiesta, da parte dei genitori di Alfie, di un consulto dei tedeschi (finalizzato all’ipotesi del trasporto), «l’ospedale ha detto apertamente: non vogliamo che un altro medico visiti il bambino. Perciò la famiglia ha deciso di portare dentro il signor Hübner [aiuto primario di Haas, ndr] come un amico». Peccato che quando l’équipe locale ha scoperto che si trattava di un professionista, «si è rifiutata di parlargli». Dunque Hübner ha visitato Alfie per conto proprio e ha potuto vedere solo «la documentazione clinica che gli hanno messo a disposizione i genitori».
 
FIT TO FLY. Fortunatamente il medico di Monaco, secondo il suo superiore, aveva abbastanza esperienza per farsi un’idea corretta senza bisogno di compulsare troppe carte. Ebbene, secondo Hübner «Alfie Evans all’epoca era del tutto stabile», lo stesso stato che Haas successivamente ha potuto verificare di persona. «Alfie era ventilato in modo corretto, non si muoveva, aveva solo crisi epilettiche occasionali. Perciò il signor Hübner ha messo per iscritto: il bambino è “adatto al volo” [fit to fly, ndt]. Ma questo naturalmente all’ospedale non è piaciuto affatto». Dopo di che sono seguiti i passaggi che tutto il mondo conosce. Le offerte di ricovero da strutture di diversi paesi esteri. La cittadinanza italiana. Gli appelli del Papa. «E adesso un giudice dice che gli Evans possono andare a casa, ma non possono lasciare il paese per far curare il bambino altrove a proprie spese? Tutto questo è folle!», osserva Haas.
 
«QUALUNQUE GRANDE CLINICA…». In Germania, un caso incurabile come Alfie Evans sarebbe seguito anche dopo l’esclusione di ogni possibile terapia, spiega Haas al quotidiano. «Questi pazienti non devono restare nell’unità di terapia intensiva, tuttavia devono essere curati al meglio». Che questo avvenga in una struttura specializzata o a casa dipende dalla volontà dei genitori, dice il medico. Quello di cui avrebbe bisogno Alfie una volta fuori dall’ospedale sono procedure e attrezzature «standard» secondo Haas:

«Qualunque grande clinica pediatrica ha dozzine di bambini in situazione simile, che sono altrettanto gravemente disabili e perciò sono assistiti in casa di cura o in famiglia. È pura routine. In Germania per la nostra valutazione Alfie sarebbe a casa già da un anno con una assistenza del genere».
 
LA VACCA SACRA. Riguardo al motivo per cui tutto questo nel sistema britannico non è possibile, «io posso solo fare speculazioni», spiega il professore. «Per come l’ho capita io, il National Health Service è la vacca sacra in Inghilterra. I medici dicono: quello che facciamo noi è giusto, punto. E poi ovviamente il trattamento di un paziente intensivo di questo tipo all’esterno della clinica costa circa tre volte quanto costerebbe all’interno. Se si crea un precedente, si scatena una valanga che comporta costi notevoli».
 
IL DOVERE DELLA SOCIETÀ. Per Alfie Evans, conferma Haas, non ci sono speranze di miglioramento, dal punto di vista medico, «e probabilmente non c’è nessuna terapia che possa guarirlo. La domanda è però come comportarsi con lui fino alla fine della sua vita. E nessuno sa nemmeno quanto a lungo potrebbe vivere. Con il sostegno adeguato potrebbe vivere ancora sei mesi, forse di meno, forse di più. In Germania – ma anche in altri paesi del mondo – diremmo soltanto: “Come andare avanti con lui, è anche una decisione personale della famiglia”. Se i genitori dicono di volere accompagnare il processo di morte del bambino a casa loro, allora una società deve essere in grado di renderlo possibile e di accettarlo. Tanto più se non ha altro da offrire». In Inghilterra e in particolare nel caso di Alfie, invece, «il sistema dice: noi abbiamo sempre ragione ed è meglio che questo bambino muoia, piuttosto che se ne occupi qualcun altro. Per me questo non è comprensibile», insiste Haas.
 
«DOV’È LA LOGICA?». Il professore tedesco nota anche qualche «interessante» contraddizione nella posizione dei colleghi di Liverpool, per altro fatta propria dalla sentenza del giudice Hayden: «Dicono che il paziente sia in uno stato neurovegetativo. Questo significa che non riceve stimoli dal suo ambiente e non prova nemmeno dolore». Ma quindi «dov’è la logica?», si domanda Haas. Perché sarebbe nel suo interesse impedire ai genitori portarlo altrove per provare altre strade? «Se non prova alcun dolore, che cosa si può fare di sbagliato?». Eppure, concede il professore, lo stato della medicina dei bambini in Inghilterra è «eccellente». Ma rispetto alla Germania c’è una differenza di «impostazione», soprattutto nei casi di disabilità grave come quello di Alfie Evans. «Credo che la nostra visione etica sia diversa, grazie a Dio». Quello che per Haas è proprio «inconcepibile» è la logica in base alla quale per il bambino sarebbe meglio morire, e che il sistema sanitario non voglia sentire ragioni diverse.

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