Quando ero bambino andare a dottrina significava, dopo la funzione domenicale delle 10, chiamata Messa del fanciullo, apprendere in parrocchia i fondamenti della fede cattolica nell’anno della Prima Comunione. Tanta acqua è passata sotto i ponti, e quasi tutto quello che ci hanno insegnato è stato revocato in dubbio, quando non del tutto rovesciato, a seguito della svolta antropologica di quella Chiesa che consideravamo madre e maestra. La dottrina è passata di moda, tanto che si prova un benefico stupore a leggere le parole del cardinale Mueller, prefetto della congregazione intitolata alla Dottrina della Fede, che ne conferma la natura di “base per tutta la vita della Chiesa, altrimenti rimane solo una Onlus, un’organizzazione caritativa come tante”. Un’affermazione che conforta soprattutto perché pronunciata in tempi in cui è passato di moda il precetto evangelico “le vostre parole siano sì sì, no no, il di più vien dal maligno” ( Matteo 5,37). Sembra più attuale che mai la drammatica domanda di Gesù stesso,” quando tornerà sulla terra, il figlio dell’uomo troverà la fede? “ (Luca, 18,8).
Sul trono di Pietro è salito un uomo dalle cui labbra è uscita una frase terribile, che ha fatto vacillare in molti, ed in chi scrive, la fede non in Dio, ma nella sua Chiesa la cui pietra angolare – parola di Gesù – è il papato. Bergoglio rifiuta con umiltà pelosa di giudicare il male, ma ha scandito davanti ad un suo interlocutore di fiducia, l’ateo anticattolico Eugenio Scalfari, “ciascuno di noi ha una sua visione del bene ed anche del male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il bene”.
Nella mia dottrina di bimbo era tutto molto chiaro, addirittura con formule precise a domanda e risposta da mandare a memoria. Eccone una: Dio è l’essere perfettissimo creatore del cielo e della terra. Quei forti principi sono stati confermati–non poteva essere altrimenti–dal catechismo di Giovanni Paolo II.
Non so nulla di teologia morale, ma sono convinto che tutto sia in fondo assai semplice, se crediamo a Gesù: io sono la Via, la Verità e la Vita. Non abbiamo bisogno di Hans Kung o di Karl Rahner e non può sussistere un “cristiano anonimo” che si salva benché miscredente. Per questo, prendo in parola il vicario di Cristo e mi chiedo: chi sono io per giudicare la dottrina? Duemila anni di saggezza alla luce della Tradizione e della Rivelazione sono lì, con lo splendore della verità. Si può non crederci, e si resta fuori dalla Chiesa. Il dramma è doverne uscire per fedeltà.
Una monaca catalana ha affermato che Maria e Giuseppe erano una normale coppia che faceva sesso, manifestando così di non credere nell’Immacolata Concezione e, di riflesso, di disprezzare la virtù cristiana della purezza. Dalle sue parole si inferisce che Gesù era figlio carnale di San Giuseppe e quindi, chissà se è davvero la seconda persona della Trinità. Quanto al ruolo del Maligno, pare che prelati di grande prestigio non credano nella sua presenza. Un sacerdote piemontese, incaricato della pastorale delle persone omosessuali, celebrando il funerale del primo torinese unito civilmente all’uomo di cui è stato compagno per decenni, ha asserito dal pulpito che tutti dovremmo chiedere scusa a quella coppia ed a tutti coloro che vivono la condizione omosessuale.
Cardinali in odore di soglio pontificio come Martini istituirono la Cattedra dei Non Credenti, mentre il colto biblista Ravasi, beniamino dei media, dialoga affettuosamente con i “fratelli massoni”. Poi ci sono i parroci che non fanno presepi per non urtare la delicata sensibilità altrui, quelli che prestano le loro chiese ai musulmani o alle più varie mascherate. Altri insultano nelle prediche e sulla rete – spesso con il turpiloquio – i politici che avversano, e, caso strano, non si tratta mai di esponenti laicisti o atei. Non hanno poi torto, tutti costoro, giacché l’uomo vestito di bianco sconsiglia l’apostolato, declassato a proselitismo e definito una sciocchezza. E’ la sciocchezza che ha reso cattolica la sua terra sudamericana, ed è al centro della liturgia anche nel Novus Ordo Missae: Credo la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.
Un vecchio monsignore scomparso da qualche anno soleva dire che il peccato più grande dei religiosi è dare scandalo. Come definire gli esempi citati, e, per un residuo pudore verso l’istituzione tacciamo di autentiche vergogne come la pedofilia o l’affarismo di alcuni. In materia di difesa della vita dal concepimento alla fine naturale, chi siamo noi per giudicare il pensiero dominante del tempo, qui in Occidente, o per opporre come intangibili i principi prima definiti non negoziabili.
Non credo di essere l’unico a vivere come un trauma ed un tradimento lo smantellamento progressivo ed ormai pressoché irreversibile di tutto ciò che la Chiesa ci proponeva a credere. Ci si sente ingannati nel profondo dell’anima. Anche Lutero è riabilitato. Quale valore possono avere ancora i sacramenti, sono ancora sette, o bastano i due accettati dalla sedicente riforma? Poi arrivano i “dubia” dei quattro cardinali in ordine all’enciclica papale Amoris Laetitia e le ambiguità sui sacramenti, lo sconcerto di documenti in cui si parla molto di ecologia, pochissimo di Dio e pressoché mai di vita eterna. Grazie di cuore, allora, a quei religiosi che non lasciano soli e sconfortati i fedeli che hanno creduto in purezza di cuore ai principi di sempre, trasmettendoli ai loro figli. Forse abbiamo sbagliato tutto, forse no, ma lo scandalo grande è seminare il dubbio, instillare un’incertezza che diventa allontanamento della Verità. Verità che esiste, ce lo ha annunciato l’uomo di Nazareth, e ciascuno la può cogliere con la ragione umana ( adaequatio rei et intellectus), sorretta dalla fede cui ci si abbandona come solo i semplici ed i puri di cuore sanno fare. Siamo al punto in cui non è follia chiedersi se il sacerdote o il vescovo che dice messa creda non nelle scialbe omelie frettolose dette per dovere d’ufficio o coazione a ripetere, ma nelle parole nettissime del Credo. Chissà se esiste ancora la Trinità, e soprattutto se è davvero risuscitato l’agitatore nazzareno figlio di Giuseppe e Maria. Forse non è che una narrazione, un espediente per raccontare di un Dio buono, una favola bella che ieri ci illuse come quella di Ermione nella dannunziana Pioggia nel pineto.
Turba la stessa nozione di misericordia posta alla base del giubileo. Non l’ha inventata Francesco, no, la dottrina ce lo ha insegnato con chiarezza che senza di essa, l’amore disinteressato di Dio per la sua creatura, nessuno salva l’anima. Nell’Atto di Dolore lo proclamiamo ancora, chiedendo perdono per i nostri errori, di cui diventiamo consapevoli e pentiti . “Propongo con il vostro santo aiuto di fuggire le occasioni prossime del peccato“, e terminiamo con una richiesta a capo chino “Signore, misericordia, perdonatemi”. Era chiarissimo a tutti, tuttavia, in base alla dottrina ricevuta, che non c’è misericordia senza pentimento e correzione, l’amore del Signore è giustizia, non un dolciastro “volemose bene”, come quello del primo sindaco di Roma Ernesto Nathan. Il punto è che il criterio del giusto, del bene e del male sembra abolito da quelle tremende parole pontificie affidate a Scalfari, il Papa ateo : “chi sono io per giudicare?”, soprattutto per quel soggettivismo drammatico del bene e del male a misura di individuo. Io potrei essere convinto che è cosa giusta tradire o uccidere, cedere ad ogni impulso, o semplicemente ritenere che il mio bene coincida con l’utile, il tornaconto, l’immediato vantaggio personale. Non è quella la via, non è quella la legge naturale iscritta da Dio nel cuore dell’uomo. Oppure, anche la dottrina della legge naturale è un residuo da abbandonare, un mito da cui liberarci, una scoria che lo spirito dei tempi ha felicemente scosso come polvere dai calzari dei nuovi discepoli della Onlus Chiesa Cattolica. Tuttavia, non è cattolica e neppure religione quella che mettesse definitivamente da parte la predicazione rigorosa di quello che, con parola ostica, i teologi chiamano “kerygma”, e descrive il contenuto essenziale della buona notizia, l’annuncio della salvezza operata da Gesù Cristo morto e risorto.
Da uomo in preda all’incertezza ed all’esitazione, ma convinto a credere “quia absurdum” come Tertulliano, devo pregare per me e per tutti lo Spirito Santo Paraclito, il consolatore, affinché riapra i cuori e dia la forza a ciascuno di riconoscere la verità senza abbandonare la via. Davvero, chi sono io per giudicare la dottrina?
Un recente racconto di Marc Augé, 'Le tre parole che cambiarono il mondo', narra una nuova distopia. Il giorno di Pasqua del 2018 il Papa si affaccia in San Pietro e dichiara “Dio non esiste”. Pare quella l’unica soluzione di fronte alle guerre in suo nome ed ai mille mali del mondo. Secondo il sociologo francese, solo una rinnovata fede nella ragione (illuminista) può salvare il mondo. Per noi, è solo un altro degli incubi della modernità, ma lascia senza fiato che un intellettuale del livello di Augé possa immaginare un papa apostata della fede con proclamazione “urbi et orbi”.
Forse non è che l’esito radicale della scelta antropologica: l’uomo sovrano intronizza se stesso: sì a Io e no a Dio. Rimbalza inevasa la domanda allarmata di un grande cattolico, Thomas Stearns Eliot nei Cori della Rocca: sono gli uomini ad abbandonare la Chiesa di Dio, o è lei a lasciarci soli di fronte al Nulla?