1) Cornelio Fabro passa alla storia come il grande metafisico, forse il più grande del secolo appena trascorso. Come viveva il suo essere teologo?
5) Diversi uomini di Chiesa, anche autorevolissimi e anche di formazione moderna, hanno denunciato una gravissima deriva dottrinale nel mondo cattolico odierno. Cosa pensava Fabro di tale fenomeno?
6) Come fu presa la sua sincerità?
7) E come vedeva il proprio combattimento filosofico-teologico, in ultima analisi la sua battaglia per la verità?
Fabro è un pensatore radicale, non è un uomo di corrente o di scuola, egli si pone di fronte ai temi decisivi per l’esistenza e prende posizione. Il peso stesso dell’erudizione non appiattisce mai l’inquieta ricerca e la religiosa “cura dell’anima”. Non era un uomo immerso nell’accademismo astratto, la Commissione per il concorso a cattedra dell’Università di Bari lo definì «degno di molta considerazione per la sue doti teoretiche», ma non mancò di scorgere i suoi accenti «polemici» e «tendenziosi», evidentemente sul centrale “problema di Dio”. Il Cornelio Fabro filosofo è un tutt’uno col teologo e con l’uomo di Dio, per il quale il problema essenziale di Dio è il problema essenziale dell’uomo.
In ogni suo scritto si legge l’indispensabile esigenza di restituire alla ragione la sua dimensione metafisica in grado di attingere il trascendente.
2) Un aspetto poco conosciuto di questo grandissimo intellettuale è, in effetti, la sua passione per il creato…
Nelle sue memorie ci parla della sua infanzia con gli animali domestici, le piccole sorgive nella zona di Flumignano (UD) suo paese natale, e si intuisce il ruolo che l’osservazione del creato ebbe fin dalla sua infanzia molto provata da serie malattie e conseguente immobilità. Frequenta per tre anni i corsi di Scienze naturali all’Università di Padova, si occupa di biologia, di embriologia, di genetica, di fisiologia comparata, di natura della vita e specialmente degli stretti rapporti tra biologia e filosofia. Per osservare la biologia marina caldeggiò la realizzazione di un laboratorio a Roma con acqua di mare, ricordiamo anche l’argomento della sua tesi di laurea in zoologia: “Modificazioni istologiche nell’utero del pescecane” e le sue innumerevoli visite alla stazione di zoologia di Napoli, ma anche allo zoo di Roma.
3) Forse anche questi elementi hanno aiutato, sotto il profilo umano, il suo approccio realista?
Rimane colpito da quel modus scientifico che riscontra nell’ambiente della ricerca e dal modo di affrontare i problemi che «ti costringe a fare i conti col reale», questa esperienza lo accompagnerà quando lascia il campo scientifico per dedicarsi alla filosofia. Di qui il suo “realismo della res”, un tutt’uno col realismo gnoseologico.
C. Fabro si confronta sempre con quella «realtà che ti prende e ti costringe a fare i conti con essa, senza fumosità pseudo teoriche e divagazioni formali semantiche». Da qui la sua avversione all’ideologismo e ai sistemi troppo razionalisti, che sono per lui «una forma d’immanentismo». Il suo impegno era ed è «ridare alle intelligenze il gusto della verità e consolidare negli animi il fondamento della libertà», e Cornelio Fabro usa la sua raffinatissima intelligenza di filosofo come un bisturi per individuare ed esaminare le fibre più interne, profonde e sottili del conoscere e dell’essere. Rispondendo all’esigenza teoretica di scandaglio della fondazione metafisica della cogitativa, come forma inferiore di razionalità e forma superiore di sensibilità, C. Fabro coglie tomisticamente quell’anello di congiunzione che si situa fra l’intelletto e la sensibilità e che spiega e legittima il realismo gnoseologico.
A questi punti fermi si ancora il suo invito all’«immersione nella realtà», all’«elasticità concettuale», alla «conversio ad praesentiam». Ovviamente sarà la lettura dei suoi scritti ad ancorarci a queste solide basi.
4) Gli ultimi decenni della sua produzione filosofico-teologica sono stati segnati anche nella cultura cattolica dall’ideologia dell’ “apertura al mondo”, apertura che, come riconobbe con accenni autocritici il Santo Padre Paolo VI, è divenuta un’invasione della Chiesa da parte del pensiero mondano…
L’attitudine al compromesso del mondo cattolico lo feriva e gli causava dolore, più tardi si rese addirittura conto che il suo infarto nel marzo del ‘74 era legato all’atteggiamento del mondo cattolico, troppo disponibile a compromessi sulle tematiche del divorzio e dell’aborto. Vedeva l’Italia che si allontanava dai principi cristiani e vedeva che ciò avveniva con leggi firmate dai governi democristiani.
Più in generale la sua sincerità lo portò sempre ad essere «contro i movimenti tiepidi di compromesso tra trascendenza cristiana e immanenza moderna», come pure sempre aborriva i gruppi di potere che per utilità nascondono la verità nella volontà e “unificano” ciò che non è nemmeno lontanamente assimilabile.
5) Diversi uomini di Chiesa, anche autorevolissimi e anche di formazione moderna, hanno denunciato una gravissima deriva dottrinale nel mondo cattolico odierno. Cosa pensava Fabro di tale fenomeno?
C. Fabro scrive a proposito degli errori filosofici moderni e della necessità che il clero li conosca per difendersene: «gli sbandamenti nella dottrina e nella morale cattolica seguiti al Concilio, forse tra i più aberranti e gravi nella storia delle eresie, che hanno coinvolto anche larghi strati della gerarchia, che non ha seguito spesso le direttive del Vicario di Cristo, dipendevano e dipendono da questo». Dipendono ossia dall’ignoranza della vera natura del «pensiero moderno», è l’«antropologia radicale» infatti ciò che mina alle basi la trascendenza e la metafisica, portando con sé gli «sbandamenti dottrinali» sopra citati. Citiamo Miccoli: «Il realismo metafisico di Fabro si è imposto all’invadenza dell’idealismo, del marxismo, dell’intuizionismo bergsoniano, dell’esistenzialismo, del pragmatismo e del nichilismo, come barriera e palizzata teoretica che si erge a confine di decisive questioni concernenti Dio, Uomo, Mondo in un linguaggio intransigente, intollerante, seccamente esegetico più che ecumenicamente ermeneutico…». Egli continua parlando di Fabro come «attento e sollecito a proteggere lo spazio sacro del divino nella linea della tradizione cattolica contro i profanatori del tempio e contro gli araldi di nuove proposte teoretiche e pratiche, che gli apparivano insidiose per la vita della Chiesa in quanto equivoche, eretiche, sovvertitrici della Fides Ecclesiae».
6) Come fu presa la sua sincerità?
C. Fabro è contro ogni pragmatismo dottrinale, perché esso non è altro che «odio per l’intelligenza», la sua «implacabile e immediata sincerità» non può che portarlo a «quell’amore aspro e appassionato per la verità che non guarda in faccia a nessuno» scriverà l’illustre giuria di Bassano nel 1989.
Per la sua sincerità dovette soffrire, si pensi al libro su K. Rahner; gli fu richiesto da alcuni colleghi che lo incoraggiarono, ma poi non fu sostenuto come si doveva quando comparvero le difficoltà, l’ostracismo, le lettere indignate. Ma lui sfidò i contestatori a pubblico dibattito in Gregoriana, evidentemente tutto restò lettera morta perché nessuno voleva confrontarsi, scrive Mario Composta, tutti conoscevano la fondatezza delle sue posizioni e la forza delle argomentazioni. Ancor più triste fu constatare che gli attacchi vennero solo dal mondo cattolico, il mondo filosofico laico non s’immischiò nemmeno e gli strali più avvelenati vennero dai vicini, ma lui continuò a condannare fermamente la “svolta antropologica” del teologo tedesco.
7) E come vedeva il proprio combattimento filosofico-teologico, in ultima analisi la sua battaglia per la verità?
Attribuiva a Dio la sua forza. Cito dal suo testamento spirituale: «Se non ho mai indietreggiato davanti alla verità è stato frutto della Sua (di Dio) assistenza misericordiosa, della protezione della Madonna, degli Angeli e dei miei santi patroni, delle anime che ho potuto dirigere e di quelle che ho assistito in punto di morte nel passaggio alla patria celeste». C’è l’aiuto di Dio e c’è la fiducia nel Signore e c’è accanto l’utilizzo responsabile della libertà ordinata dalla verità, vera «partecipazione all’opera creatrice di Dio». Nelle pieghe più intime dello spirito siamo chiamati dal Creatore a partecipare all’opera redentiva, che si fonda sull’onnipotenza divina, che ci dona una libertà scaturiente e sempre rinnovantesi. Ogni libertà è una nuova creazione nel divenire del nostro essere e quindi, nel tessuto sociale in cui siamo, partecipiamo all’opera creativa di Dio. Di qui la nostra responsabilità. Nel mondo dello spirito e nel mondo sociale ci sono questi virgulti di vera libertà - che sono come i germogli che vediamo in questa primavera - essi possono rimanere sconosciuti, non visti, non apprezzati agli occhi degli uomini, ma sono una forza e sono preziosi agli occhi di Dio e al bene dell’umanità.
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Don Stefano Carusi
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