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mercoledì 1 giugno 2016

Restyling post-conciliare della Chiesa / Il linguaggio

 
Sottotraccia alle innovazioni teologiche, alle mutilazioni sacramentali, alle liturgie creative ed alle omelie di taglio ecumenico-assistenziale, è possibile scorgere il ruolo tutt’altro che secondario svolto dal nuovo modo di comunicare della gerarchia ecclesiastica.
Il nuovo modo di comunicare è nato, manco a dirlo, con il Concilio Vaticano II in ottemperanza alle indicazioni di Giovanni XXIII che ai teologi e ai padri sinodali diede ampio mandato di rinnovamento nella forma di presentazione della dottrina, fatto salvo che la sostanza non venisse cambiata. Questo restyling del Cattolicesimo venne giustificato dall’assioma (sofistico e falso) che all’uomo moderno non ci si potesse rivolgere col linguaggio chiaro e definitorio del Magistero precedente.
Il risultato ormai sotto gli occhi di tutti coloro che voglian vedere la realtà è un caos comunicativo per cui i documenti, le omelie e le interviste di eminenti vescovi, cardinali e pontefici, a seconda della appartenenza e convenienza di chi li interpreta, possono essere ritenuti in completa continuità con la Chiesa di sempre, oppure in continuità solo in alcune parti (mentre in altre abbisognerebbero di chiarificazioni), oppure giudicati sostanzialmente in rottura con la Tradizione o addirittura bollati come anticristici.
Le ragioni di tale caos si possono intravedere in alcune ben precise distorsioni del linguaggio ecclesiale.
 
La prima forma di distorsione è figlia dello stile usato nei documenti conciliari stessi. I teologi della Nouvelle Théologie chiamati da Roncalli a dirigere i lavori e i cardinali renani votati alla Rivoluzione avvolsero i filosofemi modernisti con attenuazioni (litoti), apponendo accanto ad una enunciazione eretizzante un termine limitativo: famoso il “in certo qual modo” con cui si è tentato di rendere meno dirompente l’affermazione, priva di fondamenti biblici: “con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito ad ogni uomo”(Gaudium et Spes).
 
Una seconda forma di linguaggio opaco è la tecnica del mascheramento, anche questa di origine vaticanosecondista. I padri sinodali, per obbedire alla volontà di Paolo VI (le innovazioni dovevano passare a larga maggioranza), accompagnarono le idee riformatrici con citazioni tratte dalla Bibbia e dal Magistero precedente che volevano essere rassicuranti, ma non sempre ci riuscivano (né potevano: la parola divina è come un diamante, che non può piegarsi alla volontà di potenza dell’uomo.
Mascherate dal linguaggio impreciso e affabulatorio sono stati incistati degli elementi non-cattolici all’interno di documenti che erano, per la loro propria natura, protetti dall’aura magisteriale, tanto che successivamente furono sigillati da interessati interpreti come opera della Terza Persona della SS.ma Trinità. Alcuni passaggi sono suscettibili tanto di una interpretazione ortodossa (utile a sedare pericolosi allarmismi) quanto di una liberale (quella che sarà impugnata come una scure dagli epigoni modernisti). L’ermeneutica postconciliare di stampo progressista si incaricò di portare alla luce i semi della mala pianta modernista che vi giacevano mescolati alle verità divinamente rivelate.
Questo modo di stilare i testi conciliari riflette una tecnica non nuova, anzi utilizzata da secoli dagli eretici e dagli esponenti eretizzanti (Erasmo). Già Pio VI aveva denunciato “l’arte maliziosa propria degli innovatori”, che “si adoperano per coprire sotto fraudolenti giri di parole i lacci delle loro astuzie, affinché l’errore nascosto … s’insinui negli animi più facilmente e avvenga che – alterata la verità della sentenza per mezzo di una brevissima aggiunta o variante – la testimonianza che doveva portare la salute, a seguito di una certa sottile modifica, conduca alla morte… Affermare e negare a piacimento fu sempre una fraudolenta astuzia degl’innovatori a copertura dell’errore” … un tale “incoerente multiloquio … avvolge d’oscuro il vero e, confondendo l’una e l’altra cosa, confessa quello che aveva negato o si sforza di negare quello che aveva confessato” (Bolla Auctorem fidei).
 
Tratto da Qui (testo di Oreste Sartore)

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